D.Lgs. 231/2001: principi generali

09 dic D.Lgs. 231/2001: principi generali

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Dopo aver analizzato, in precedenza, le motivazioni storico-giuridiche che hanno portato il legislatore all’emanazione del Decreto 231, vediamo oggi le norme di principio generale del medesimo, importantissime per capirne i criteri di applicazione ed imputazione.

L’articolo 4 concerne l’applicazione della legge nello spazio, adottando il principio di universalità: al fine di evitare fenomeni di elusione della normativa, la persona giuridica con direzione in Italia che compia reati all’estero, sarà sottoposta a provvedimento nel nostro Paese, salvo che lo stato straniero abbia già proceduto altrimenti nei suoi confronti.

L’ articolo 5 stabilisce invece i criteri di imputazione della responsabilità, attraverso il modello della teoria organica; ciò che rileva è che i reati posti in essere portino vantaggi all’ente, mentre lo stesso non risponde se i soggetti presi in esame (…) “hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi”. E’ molto importante sottolineare che il legislatore delegato ha incluso nel decreto anche la figura degli amministratori di fatto, cioè di tutti quei soggetti che, pur senza essere titolari di cariche formalmente riconosciute all’interno della società, ne abbiano in realtà l’amministrazione o il controllo. Tale fenomeno, infatti, pare oggi assai diffuso: l’esclusione o comunque la non previsione di questa categoria di soggetti avrebbe portato all’elusione e al depotenziamento concreto di parte del decreto con conseguenti negative ricadute sul piano delle esigenze di politica-criminale.

L’articolo 6, di stampo puramente penalistico ed evocante la disciplina americana, costituisce il cuore dell’intero impianto disciplinare (insieme all’articolo 7) in quanto disegna l’imputazione soggettiva e la necessaria predisposizione dei “modelli di organizzazione”.

Con tale articolo, infatti, si introduce una forma di esonero dalla responsabilità dell’ente, laddove quest’ultimo sia in grado di dimostrare (nel corso del procedimento penale contro le persone fisiche che hanno commesso il reato) di aver adottato, prima della commissione del fatto, degli idonei modelli di organizzazione e gestione.

Inoltre, viene prevista l’istituzione di un apposito organo di controllo interno (ODV), “dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo” col “compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli” e di “curare il loro aggiornamento”. Le associazioni di categoria possono formare appositi codici comportamentali (da comunicarsi al Ministero della Giustizia, che a sua volta ha la facoltà di fare osservazioni sulla loro idoneità), ai quali i vari enti potranno ispirarsi per disegnare i modelli di organizzazione e di gestione richiesti.

L’articolo 7 è l’altra disposizione “core” del decreto in esame e disciplina l’ipotesi che possiamo definire “colpa di organizzazione”.

In buona sostanza, essa riprende i casi previsti dall’articolo precedente, ma in questa situazione quando siano commessi non da soggetti “apicali”  bensì da persone sottoposte alla direzione o vigilanza dei medesimi.

In queste circostanze, non opera l’inversione dell’onere della prova sopra descritto: nell’ipotesi di reato commesso dai sottoposti (proprio per la posizione dei medesimi, che tendenzialmente non dovrebbero, con il loro agire, rappresentare la volontà dell’ente) l’esclusione della responsabilità della persona giuridica è prevista di routine, eccetto per il caso specifico nel quale essa, non osservando i suoi obblighi specifici di direzione e vigilanza, abbia reso possibile la condotta criminosa del soggetto agente.

Inoltre, la colpevolezza dell’ente è sempre esclusa quando questo, prima della commissione del reato, “abbia adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi“: l’unica condizione necessaria è che il modello abbia una concreta efficacia, da intendersi come efficienza e funzionalità tali da garantire una ragionevole capacità di disinnescare le potenzialità criminali, e non sia pertanto un semplice “parafulmine” studiato solo sulla carta per godere della scriminante.

A questo proposito, i modelli devono essere effettivi e ragionevolmente efficaci e ciò in base alle dimensioni della persona giuridica, al tipo di attività svolta ed alla storia precedente dell’organizzazione.

Le ulteriori richieste sono comunque ben specificate dal legislatore e dalla giurisprudenza (famosissima, in tal senso, l’ordinanza del GIP di Milano Dott.ssa Secchi del 20.09.2004) in quanto essi devono:

  • individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi dei reati (dando luogo, in questo modo, ad una sorta di “autodenuncia” pubblica circa la quale molto si è discusso);
  • prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire;
  • indicare le modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedirne la commissione;
  • stabilire gli obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli;
  • introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.

 

Tale modello deve essere adottato dal Consiglio di Amministrazione con delibera.

Avv. Domenico Balestra